Ho conosciuto mia moglie quando eravamo ragazzini, in vacanza… erano gli anni ’70. E’ stata subito un’attrazione reciproca, un amore con le sfumature appassionate che l’adolescenza regala. Poi, data la distanza geografica, la relazione ha preso la strada di una amicizia profonda, che affidava le sue parole e i suoi scambi a lunghe lettere. Crescendo, la corrispondenza tra noi è andata esaurendosi, lasciando spazio ad altri percorsi e relazioni. Dopo aver perso la mia prima moglie, per diversi anni mi sono occupato dei figli, del lavoro, della famiglia… senza il desiderio di investire in altre relazioni, sentivo che di quel tempo avevo bisogno per recuperare un equilibrio, per sistemare dentro di me quello che era successo.
Ripensando poi alle persone significative incontrate nella mia vita, la memoria è andata a quella ragazza con cui in maniera così spontanea avevo scambiato pensieri, esperienze, emozioni. Sono riuscito a risalire a lei grazie ai social e, nel ricominciare a scriverci, la sensazione è stata quella di un filo di confidenza, intimità, piacevolezza mai interrotto, nonostante i tanti anni di silenzio che avevano segnato il nostro rapporto. Ritrovare una persona proprio là dove l’avevamo lasciata. Riconoscersi – adulti, cambiati, con un bagaglio più pesante di esperienza sulle spalle… ma riconoscersi. E’ così che ho deciso di trasferirmi dalla Lombardia a Carpi, di condividere il resto della vita con lei, di ricominciare.
In questi dieci anni abbiamo vissuto momenti molto belli e intensi, che hanno rappresentato un’eredità preziosa quando è arrivata la notizia che mia moglie aveva un tumore. Inutile dire che la malattia ha imposto un significativo cambio di passo alle nostre vite: ricoveri ospedalieri, un paio di interventi chirurgici nel giro di 15 giorni, la riorganizzazione dei tempi familiari per garantire a lei un’assistenza premurosa e adeguata. Ci sono stati momenti molto difficili come quando arrivavano le domande sul tempo che restava da vivere, su come sarebbe evoluta la malattia. La ‘risposta’ che spesso ripetevo è che a queste domande non c’era risposta, c’era invece il tempo presente che potevamo rendere pieno, il qui e ora delle relazioni care di cui avevamo l’occasione di godere.
Quando la situazione è cominciata ad aggravarsi e mia moglie si è detta d’accordo a un ricovero alla Casa Madonna dell’Uliveto ho tirato un grande sospiro di sollievo. Da un lato, mi faceva paura l’idea che potesse vivere l’ultimo periodo della malattia a casa perché una simile esperienza l’avevo già attraversata con la mia prima moglie; dall’altro, ci era stato assicurato che in Hospice, nonostante fossimo già in piena emergenza sanitaria Covid19, un familiare avrebbe potuto sempre essere presente in stanza, pur nel rispetto di alcune misure restrittive. Certo, non godere della vicinanza di persone amiche è stato un aspetto faticoso per mia moglie, tuttavia, se consideriamo quello che avveniva negli ospedali, alla Casa si è comunque cercato di non sottrarre i pazienti alla presenza degli affetti più cari. Mia moglie qui si sentiva in villeggiatura, ben accudita, assistita con professionalità e affetto. In buone mani. E questo la faceva sentire in pace, trasmettendo anche a noi quel suo senso di serenità. Io conoscevo questo posto, per il precedente ricovero di un amico: mi avevano colpito fin da subito il luogo e la sua bellezza. Dopo averlo vissuto da familiare, posso dire che la mia prima sensazione è stata confermata: in questo Hospice ci si prende cura delle persone ammalate con un ‘di più’ che è raro trovare in altri contesti di cura. E anche se adesso resta un grande vuoto, sono convinto che essere venuti qui sia stata la scelta giusta. Il fatto stesso che torni volentieri su questa collina dimostra la riconoscenza e il legame che sento verso gli operatori e le operatrici della Casa.